Il mio articolo scritto per “Il Fatto Quotidiano” il 1 dicembre 2019
*ATTENZIONE SPOILER*
Didascalico, didattico, a tratti ripetitivo. Magistrale. Il cinema di Martin Scorsese non è confondibile con nessun’altro modo di ritrarre la realtà. La cinepresa che cala dall’alto, roteando attorno al viso dei suoi attori preferiti ( in questo caso – The Irishman – un trio Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci in stato di grazia), si insinua a mezz’aria nei corridoi degli ospedali o dei casinò, posta alla giusta altezza per raccontare di quel limite dov’è l’interiorità di un uomo e di un padre sfuma e confluisce in una legge superiore alla quale si sottomette. Quella del legame mafioso.
Un mondo dove ciò che appare è. Dove la devozione rituale non ammette eccezioni. È questa la cifra dei soldati descritti da Scorsese. Obbedienti al capo, pronti ad azzerare amore filiale e frantumare amicizie. Da soldati si vive e da soldati si muore.
Come in tutti i film di Scorsese non c’è spazio per la morale o le buone intenzioni, soppiantate dal racconto di ombre che si incamminano lungo l’epilogo di una via dedicata all’osservanza di codici e legami che trascendono e superano qualsiasi legge. Frank non conosce il senso di colpa, né cerca la redenzione davanti a Dio, incontrando invece l’adesione incondizionata al codice malavitoso.
Obbedendo al motto “È come deve essere”, lapidaria frase con la quale vengono ordinate le esecuzioni dei nemici, De Niro testimonia laconicamente davanti all’obiettivo l’incredulità di chi non si capacita di come le figlie si siano allontanate. Lui è stato, secondo la linea che da Scorsese, un buon padre di famiglia, ha servito la comunità, ha protetto la prole da pericoli legati a quelle attività. “Io ho cercato di proteggervi”, dice affranto alla figlia .
Solo in una scena, che non cito per non svelare la trama, egli tradisce un cedimento di commozione solo impercettibile, obbligato a far prevalere la funzione di soldato rispetto a quella di amico. Frank, sicario ormai solo e irredimibile, stupisce chi gli chiede di dire la verità sul suo passato, liberando vedove e orfani dal peso dell’enigma.
Essi non comprendono, come non lo hanno mai capito le figlie e il giovane prete, che l’obbedienza alla famiglia mafiosa va al di là di qualsia legame terreno. Dunque il concetto di redenzione non può appartenere all’ultimo dei soldati. Chi si ricorda le parole di Totò Riina in carcere? (“Io non mi pentirò mai, posso farmi altri tremila anni”). Consapevole di questo Frank chiede di non essere archiviato. Né amici, né padri, né amanti: si è parte di un gruppo, e con esso si finisce.
Tre ore sotto l’occhio spietato di un cinema privo di fronzoli puntato su una realtà che ha come cifra la solitudine. È il cinema di Scorsese. Per certi aspetti Il Cinema.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”