Né noia, né vuoto interiore o banalità pseudo educative.

Né noia, né vuoto interiore o banalità pseudo educative. La psicoanalisi impone di dare il giusto nome alle cose. I fatti di Manduria si chiamano sadismo.

Il mio articolo per il Fatto Quotidiano del 29 aprile 2014

Né la noia, né il “vuoto profondo”, né tantomeno “la mancanza di bar” o attività di svago in zona sono a fondamento della serie di sevizie alle quali è stato sottoposto il 66enne di Manduria. E’ bene fare piazza pulita di triti luoghi comuni che non aggiungono nulla a un’analisi sociologica di questo fenomeno. Ognuno di noi ha il ricordo di interminabili giornate adolescenziali colme di noia con pomeriggi infiniti da riempire. Non per questo si andava in giro a torturare i passanti. E’ necessario introdurre nel lessico quotidiano le categorie cliniche che la psicoanalisi ha evinto, e dare alle cose il loro nome: questo modo di agire si chiama sadismo.

Il sadico trae un godimento infinito nel ridurre l’altro a oggetto, ottenendo soddisfacimento in maniera proporzionale alla sofferenza che riesce a infliggergli. Il sadico “fa vibrare le corde dell’angoscia” nell’altro, instaurando su di lui un potere che pretende illimitato. Il sadico perverso è una struttura di personalità ben delineata, presente nella società, che non paga pegno ad alcun fattore sociale, se non facilitata da un allentamento della percezione del limite imposto dalla legge. Questi comportamenti adolescenziali costituiscono in nuce ciò che sovente sfocerà negli atteggiamenti persecutori verso la donna o nelle mattanze da caserma.

Le forme di sadismo collettivo che prendono di mira soggetti fragili o minoranze hanno sempre fatto parte della storia (dai pestaggi ai danni delle matricole nei licei, passando per l’umiliazione delle reclute in caserma) trovando nei periodi bellici un momento elettivo di sdoganamento, fornendo a individui di tal fatta un ruolo accettato e codificato. I gruppi violenti corroborati da alcol e droga che individuano un soggetto debole per annientarlo non hanno alcuna finalità se non quella di consolidarsi come unità basata sull’identificazione di un “inferiore” da eliminare. Una minor presa sociale della percezione del limite e la sensazione di una legge vieppiù debole sono i fattori che ne favoriscono una più frequente uscita allo scoperto. Anni fa, vicino alle mie terre, un gruppo di ragazzi che usò violenza su una coetanea minorenne si difese sostenendo che, poiché l’atto si era consumato a casa loro, “non credevamo fosse reato”.

Si noti che il filmare gli atti di violenza e diffonderli obbedisce pienamente alla struttura del perverso, che gode dall’essere visto mentre viola la legge o commette una sopraffazione, proprio come la costruzione cinematografica di Brenton Tarrant ha mostrato.

Ultimo luogo comune da abbattere: alcol e droga non sono la causa di questi comportamenti, sia chiaro. Come il caso Varani dimostra, sono semplicemente elementi disinibitori che servono a far fuoriuscire più facilmente gli istinti violenti che preesistano in questi uomini. La facilità con la quale oggi gli alcolici si possono reperire agevola sicuramente queste esplosioni di violenza gruppale, ma non ne costituisce la causa. Lo stesso vale per le sostanze stupefacenti. Chi oggi grida alla “droga come causa di tutto” dimentica le generazioni degli anni 70 falcidiate dall’eroina, con i morti nei parchi con la siringa infilata nel braccio. Mentre però l’eroina costituiva elettivamente la sostanza del ritiro dal legame sociale che marcava un non volerne sapere dell’altro, le sostanza oggi in commercio, dalla cocaina agli acidi, comportano e prevedono un fattore di disinibizione, utile per questi soggetti a eliminare le ultime barriere che percepiscono tra loro e il desiderio di infliggere un’illimitata sofferenza alla vittima.

Cercare la loro redenzione o il loro pentimento è per lo più tempo perso. Il soggetto sadico obbedisce a un ordine morale improntato all’altrui sofferenza: un’altra legge, un altro modo di vivere.

Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”