La vicenda sollevata dal servizio de Le Iene riguardante zone criptate della rete ove alcuni individui utilizzano fotografie di donne rubate per dare forma a un’umiliazione “virtuale” collettiva, prodromo al loro soddisfacimento sessuale onanistico, costituisce un elemento che attiene direttamente al concetto clinico di perversione. In questo caso troviamo fusi i punti essenziali della perversione di tipo freudiano, ben esemplificati da Franco De Masi che ne tratteggia il desiderio di trasgredire l’ordine morale, di umiliare, di sovvertire o di essere crudele, con l’ottica lacaniana che va al di là dell’idea di una semplice aberranza in rapporto a dei criteri sociali, anomalia contraria ai buoni costumi, ma la intende come: “un’altra cosa proprio nella sua stessa struttura”, un’altra legge, altri codici, sovente in stridente antitesi con la lex che regola la convivenza civile.
Un elemento cruciale evidenziato dal servizio sta nella linea divisoria che passa tra le proprie fantasie individuali (in questo caso di sottomissione, possesso e svilimento dell’altro) e la loro manifestazione in un luogo a torto ritenuto proprietario, come quello di una stanza del web. Un’agorà che funge da contenitore, nel quale soggetti con queste inclinazioni trovano un punto di aggregazione – ai loro occhi consentito e lecito, per essi non dissimile dal fluire delle loro fantasie private – il che spiega lo stupore dell’intervistato quando il giornalista gli fa notare che l’utilizzo di foto rubate da profili costituisce un reato.
La creazione di stanze virtuali entro le quali condividere disprezzo, turpiloquio, minacce, parole oscene nei confronti della donna, assolve in toto a quello che una delle principali forme di godimento del sadico: ridurre l’altro a oggetto. Una degradazione a cosa sulla quale esercitare forme di controllo che si basano sullo svilimento, traendo soddisfacimento ed eccitazione sessuale dall’illimitato potere di controllo e sopraffazione con il quale questa viene tenuta in scacco. I protagonisti del servizio portano in parola ciò che altri, nella realtà, mettono in pratica passando al controllo fisico e mentale delle vittime prescelte.
Questo non significa che chi si eccita attraverso l’uso dell’improperio verso immagini di donne rubate metta poi in atto azioni fisiche di controllo e violenza sulla donna. C’è di mezzo una scelta. I partecipanti a queste stanze avvertono in realtà che si tratta di una pratica illecita, proprio perché inclini a camminare in quella zona grigia ove la legge non riesce del tutto a infiltrarsi, garantendo quel senso di “proibito” che dà il sale a molte delle loro azioni; le quali sarebbero, se non minacciate di sanzione, prive di qualsiasi attrattiva.
Il perverso nell’accezione lacaniana è invece ben lontano dall’ignorare la legge. Ne ha infatti bisogno come punto di gravità, attorno al quale muoversi mantenendo una distanza di sicurezza. Le oscenità parlate e fantasticate nel vedere sfilare le immagini di quelle ragazze sono le stesse che costoro celano nei loro pensieri reconditi. Essi intendono la rete come un’estensione personalee quindi intoccabile delle loro fantasie abusatorie. Fantasie verbalizzate in stanze del web, condivise da soggetti che sono animati dai medesimi istinti e le medesime inclinazioni, sfidanti una legge che avvertono insensata perché percepita come intrusiva non già di un luogo pubblico, ma delle loro fantasie. Per questo motivo alcuni di loro mostrano, all’affacciarsi dell’intervistatore che elenca i reati commessi, il medesimo sbigottimento che avrebbero di fronte a chi, fermandoli per strada, dicesse “è reato ciò che stai pensando verso questa o quella donna”. “Non mi è mai stato chiaro quanto si rischia o quanto non si rischia rimanendo a guardare“, si chiede un utente partecipante.
Rubare foto è un reato. Esprimere frasi ingiuriose verso persone delle quali si è saccheggiato l’album fotografico anche. Le minacce e la diffamazione sono reati. Senza considerare il fatto che questa pratica, rendendo rintracciabili le prescelte, può metterle in pericolo qualora nel gruppo si trovi chi intenda andare oltre la chat cercandole fisicamente. È questo pericolo che essi non avvertono, perché ai loro occhi non ha alcun valore. La reazione dell’intervistato, e di altri appartenenti a queste comunità (leggibili nel servizio) ricorda quella di un gruppo di adolescenti che anni fa venne arrestato perché colpevole di violenza di gruppo nei confronti di una minore. La loro risposta, che lasciò di sasso gli inquirenti, fu “ma era nel nostro garage, noi pensavamo che lì non fosse reato“.
(Scritto da Maurizio Montanari per “Il Fatto Quotidiano”, pubblicato il 2 gennaio 2019)