Vi è stato un tempo nel quale fare lo psicoanalista conosceva l’emergenza dell’eccesso di oggetti.
Nel periodo pre crisi non vi è stata solo un impennata di psicofaramaci, quanto una diminuzione di domande di analisi, frutto del tempo della cosa capace di tamponare la domanda. Nel tempo della ricchezza l’analista, specie quelli altolocati, aveva a che fare con una media borghesia nevrotica, satura di rimedi, di palliativi capaci di smorzare il barlume dell’interrogazione.
Il post crisi, che a tuti gli effetti viviamo, ha avito ripercussioni anche nella modulazione d ingresso dei pazienti nello studio di un analista.
Ma come?
La progressiva depauperizzazzione, il drastico calo del potere di acquisto, il venir meno degli oggetti legato alla volatilità del lavoro ormai divenuto un bene temporaneo, ha creato una condizione per la quale esprimere, dare forma, sondare un desiderio può comportare in sé effetti deleteri.
Molti uomini e donne lavorano in aziende di tipo multinazionale, prive di fine che non sia il profitto. Essi si trovano immersi in una dimensione coercitiva di lavoro per il lavoro, il prodotto per il prodotto, incatenati ad una condizione che si guardano bene dal mettere in discussione, pena la strada, la fame, la fine delle rate, della casa e l’abbigliamento del bambino.
Queste strutture, non faccio i nomi ma sono note a tutti, si sostengono su una dimensione di riduzione del desiderio del singolo per sostenere il profitto della struttura. No ferie, no pausa bagno, stipendi ridotti all’osso, delocalizzazione come arma per irretire ogni possibile insubordinazione.
Dopo aver accettato la custodia che queste strutture garantiscono, i soggetti iniziano a pensare alla loro vita.
Avere un figlio, programmare l’acquisto di una casa, sognare una vita nella quale si possa dare forma alla creatività, ai propri desideri profondi.
E a quel punto, scoprono che non è possibile.
Non è possibile anteporre un desiderio proprio al fine ultimo della Struttura che ti caccia se osi restare incinta.
I pazienti si chiedono, in un momento critico della loro vita: ” Ma cosa sono io? Cosa ci faccio qua dentro?
Io voglio altro, desiderio altro.”
Questo è il momento della rabbia, della frustrazione, della disperante consapevolezza di esser chiusi in una gabbia nella quale non è possibile desiderare.
Questa condizione è all’origine di quella che, specie nei social vediamo agire, vale a dire la distruzione del desiderio altrui.
Una ferocia trasversale porta a inondare di odio qualunque barlume desiderante faccia la sua comparsa, in una mortifera tendenza all’azzeramento.
“Si è smarrito mentre tentava di scalare l’Everest”
“Ma chi glie lo ha fatto fare? SI arrangi!”
“Ha una crisi al 30 kilometro del cammino di Santiago”
“Peggio per lui, poteva starsene a casa”
“Cade nel corso di un escursione”
“Meglio! Un cretino in meno in giro”
Qualunque azione che un tempo sarebbe stata oggetto non dico di ammirazione, ma quantomeno di curiosità, oggi suscita una rabbia cieca e furiosa, senza filtro e senza mediazione.
Per chi abita in un campo che lui stesso ha bruciato, ogni filo d’erba che sorge nei campi vicini deve essere raso al suolo.