“Nana deforme”, “mocciosa viziata pagata dai poteri forti”. Sono solo alcuni degli epiteti con i quali Greta Thunberg è stata attaccata e derisa tanto da politici e giornalisti di importanti testate, quanto dall’abitante medio di quella polis telematica che è la rete. Un florilegio di epiteti tra il ridicolo e il feroce, sullo sfondo dei quali si intravede un’impostazione teorica paranoica e complottarda.
“Greta lo fa per narcisismo”. “Greta è al soldo di qualche lobby”. “Greta ci marcia”. È talmente fitto il fuoco verso il corpo, la postura e i movimenti della suddetta da far passare in secondo piano il messaggio che va veicolando. Perché oggi il valore simbolico di alcune azioni ha perso di efficacia e credibilità e i portatori di tali messaggi sono spesso tratteggiati come micragnosi omuncoli preda di interessi particolari? Sembra che un cinismo di massa si sia impadronito dell’opinione pubblica, sempre più orientata a scorgere nell’animo di ogni uomo – anche il più adamantino – un tornaconto personale, un doppio fine nelle cose che fa e dice.
Che il generale, noto per i suoi accorati discorsi patriottici, amasse avere le folle del paese ai suoi piedi, che il parroco coltivasse un alcova di amanti, o che il vicesindaco fosse solito non pagare il conto erano cose risapute anche diverse generazioni fa. Erano quei segreti conosciuti da pochi, celati ai più per poter permettere alla funzione che quegli uomini, deboli e fallaci, incarnavano di poter continuare ad esistere. Simboli.
La pruderie nello scovare i vizi privati era avvertita come una minaccia al mantenimento dello status quo sociale. Per questo il figlio minore si beccava la sberla se a tavola osava dire ciò che alcuni già sapevano (il maestro palpeggia la bidella!). Come maestro era portatore di messaggi che dovevano orientare gli alunni.
Il politico sosteneva idee di pace sociale e carità cristiana che smorzavano gli animi nei periodi di carestia. La loro funzione simbolica – pubbliche virtù – veniva protetta dal fetore dei loro vizi privati. Oggi invece tutto è sfrondato, ogni foglia è gettata a terra.
La progressiva depauperizzazione, il drastico calo del potere di acquisto e il lavoro ormai divenuto un bene temporaneo hanno creato una condizione per la quale esprimere, dare forma, sondare un desiderio può comportare la rabbia altrui. Molti uomini e donne si trovano immersi in una dimensione coercitiva del lavoro per il lavoro, del prodotto per il prodotto, incatenati a una condizione che si guardano bene dal mettere in discussione, pena la strada, la fame, la fine delle rate, della casa, dell’abbigliamento del bambino.
Il capitalismo attuale si sostiene su una dimensione di riduzione del desiderio del singolo per alimentare il profitto della struttura. No ferie, no pausa bagno, stipendi ridotti all’osso, delocalizzazione come arma per irretire ogni possibile insubordinazione. Avere un figlio, programmare l’acquisto di una casa, sognare una vita nella quale si possa dare forma alla creatività, ai propri desideri profondi. Desideri impossibili, sogni proibiti.
Oggi non puoi sognare, non puoi desiderare. Sei cacciata se osi restare incinta, se vai in bagno, se chiedi un aumento per la rata dell’auto. Questa condizione è all’origine di quello stato di cose che, specie nei social, vediamo agire, vale a dire la distruzione del desiderio altrui. Questa passa per un denudamento delle bassezze (vere o presunte) di chi si fa portatore di un’ideale che trascenda la quotidianità. Se c’è la peste, dobbiamo morire tutti. Una ferocia trasversale porta a inondare di odio qualunque barlume desiderante faccia la sua comparsa, in una mortifera tendenza all’azzeramento.
Si è smarrito mentre tentava di scalare l’Everest: “Ma chi glie lo ha fatto fare? Si arrangi!”. Ha una crisi al 30 kilometro del cammino di Santiago: “Peggio per lui, poteva starsene a casa!’. Cade nel corso di un escursione: “Meglio! Un cretino in meno in giro”. Si batte contro l’inquinamento: “Ma cose le importa? È ricca e può permettersi di gettare via il suo tempo!”. Muore perché lottava per i diritti delle donne: “Poverina, si vede che era così brutta che nessuno se la filava!”.
Qualunque azione che un tempo sarebbe stata oggetto non dico di ammirazione, ma quantomeno di curiosità, oggi suscita una rabbia cieca, senza filtro e senza mediazione. La rete ha un ruolo centrale in questa atmosfera di odio. Ha avuto il merito di avvicinare coloro i quali erano, un tempo, abitanti di luoghi ritenuti inavvicinabili: politici, star televisive, intellettuali.
Oggi è possibile seguirli passo passo nella loro quotidianità, nei loro acquisti. Sapere cosa mangiano, cosa indossano. Dove dormono. Questa reductio alla condizione di vicino di casa li ha spogliati di qualsiasi valenza simbolica, riducendoli solo ed esclusivamente a rivali in una perenne battaglia per la vita.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”