La ‘diagnosi ‘di tempesta emotiva’ grazie alla quale un uomo reo di aver strangolato la moglie ha ottenuto un alleviamento della pena, sembra aver riportato indietro le lancette del tempo, cronologico e clinico, evocando mai sopiti sensi patriarcali di possesso diffusi trasversalmente nel corpo sociale. Resta stupito dall’eco di questa sentenza solo chi non ha prestato orecchio in questi anni ad una sempre maggiore torsione della clinica forense artatamente utilizzata, in molti casi, per ottenere un alleggerimento delle condanne penali inflitte ai picchiatori di donne.
Ricordo l’amarezza in sala, diverse estati orsono, quando partecipai alla presentazione del libro di Giovanna Ferrari Per non dargliela vinta, che descrive la vicenda della figlia ammazzata dal compagno ritenuto preda di uno ‘scompenso emozionale’. Da quel momento ho iniziato, con interesse clinico, ad appuntarmi la sequela di diagnosi posticce sfornate per attenuare il peso della legge che gravava sulle spalle di tanti uxoricidi: ‘allentamento della capacità di intendere’, ‘ disturbo dissociativo momentaneo’ e, su tutti, l’immancabile ‘raptus’.
Da cosa sono dunque mossi questi uomini che, non tollerando la libertà di azione e pensiero della propria compagna o moglie, arrivano ad ucciderla quando infrange i loro desiderata di dominio illimitato o quando diventa un intralcio sacrificabile ad un’altra scelta di vita? Soffrono davvero di disturbi mentali?
Nella maggioranza dei casi si tratta di individui che intendono lucidamente e senza vizio alcuno di mente la donna come un oggetto inalienabile, sopprimibile qualora essa osi ribellarsi alle loro spire possessive. «Ho perso la testa perché lei non voleva più stare con me. Le ho detto che lei doveva essere mia e di nessun altro. L’ho stretta al collo e l’ho strangolata» avrebbe dichiarato , secondo i quotidiani, Michele Castaldo.
In tante delle storie che finiscono come quello di Riccione gli attori sono uomini che vessano, incombono e tengono sotto lo scacco dell’angoscia la vittima, come i protagonisti dell’Amore Molesto’ di Mario Martone. Il perverso sadico, figura ben nota alla clinica, non ha altro fine che non sia il puro piacere di somministrare sofferenza attraverso un controllo radicale, sia fisico che mentale della donna degradata a oggetto. Questi individui non prevedono la morte della prescelta come obbiettivo finale. L’uccisione è la risposta alla messa in scacco delle loro feroci attenzioni , quando essa decide di svincolarsi o, in altri casi, quando diventa un intralcio ad un altro progetto di vita (si pensi al massacro di Motta Visconti, dove la moglie e i figli dell’omicida vennero eliminati perché costituivano un intoppo al suo desiderio di rifarsi una vita con un’altra).Terrorizzati dalla femminilità e dalla cifra di libertà in essa insita, risolvono l’enigma di ciò che per loro costituisce un perturbante ingabbiandolo o annientandolo.
Uomini le cui gesta non sono aliene dal legame sociale, poggiando su radici che già Dostoevskij individuava nel suo ‘Memorie del Sottosuolo’: ‘Io non ero nemmeno più in gradi di amare, giacché per me amare significava tiranneggiare e dominare moralmente. Per tutta la mia vita io non sono stato neppure capace di figurarmi un amore diverso, e sono andato tanto oltre che adesso certe volte mi capita di pensare che l’amore consista soltanto nel diritto liberamente accordatoci dall’essere amato di esercitare su di lui la nostra tirannia’.
Urge pertanto un’azione culturale che contrasti la riduzione di questi crimini entro categorie diagnostiche. Patologizzare l’odio per la donna e la violenza verso il suo libero essere, assolve ad una tragica funzione riparatrice, rivela l’intento assolutorio che la società adotta nei confronti di ciò che ritiene malato, presupponendo un pentimento che il sadico non conosce, o evocando stati morbosi di incapacità di intendere delle quali il perverso, che sceglie sempre lucidamente, non è affetto. L’abuso di etichette patologizzanti allontana da noi il crimine diluendo le responsabilità soggettive, distoglie l’attenzione dal fatto che un comportamento culturalmente acquisito e condiviso in larga parte non deve trovare alcuna giustificazione se vestito coi panni della devianza o, peggio, della malattia. La scorciatoia assolutoria è lì, lastricata di desideri moraleggianti o ‘terapeutici’. Sapere che uccidere la donna trova un humus fertile nel quale attecchire, anziché una risposta sociale di forte condanna (che deve trovare noi clinici in prima linea), porta questi individui all’autoassoluzione, certi di poter contare su ciò che scriveva Dostoevskij : ‘Per quanto mi riguarda personalmente, io altro non ho fatto nella mia vita se non portare all’estremo ciò che voi avete osato portare soltanto sino a metà’.